La Corte Costituzionale pone dei limiti al riconoscimento legale di un figlio nata in Italia in seguito a fecondazione assistita, da parte della madre intenzionale legata civilmente alla madre biologica secondo la legge italiana.
Con la sentenza n. 230 del 2020 la Corte Costituzionale ha dichiarato l’inammissibilità della questione di legittimità costituzionale dell’art. 1, comma 20, della legge 20 maggio 2016, n. 76 e dell’art. 29, comma 2, del D.P.R. 3 novembre 2000, n. 396, nella parte in cui escludono che la madre intenzionale possa essere riconosciuta come genitrice del bambino – nato in Italia – a seguito di un progetto di fecondazione assistita perfezionato all’estero, nell’ambito di una coppia omogenitoriale femminile unita civilmente, poiché una diversa tutela del miglior interesse del minore, in direzione di più penetranti ed estesi contenuti giuridici del suo rapporto con la madre intenzionale, che ne attenui il divario tra realtà fattuale e realtà legale, è ben possibile, ma le forme per attuarla attengono al piano delle opzioni rimesse alla discrezionalità del legislatore.
Due donne italiane in seguito ad un progetto di vita familiare comune , hanno deciso di recarsi all’Estero per aver un figlio tramite la fecondazione assistita , figlia nata poi in Italia ,le donne si erano anche unite civilmente sempre in Italia ex legge 20 maggio 2016 n 76 .
Al momento di andare a registrare la figlia , l’ufficiale di Stato civile ,si è rifiutato di registrare all’anagrafe la madre intenzionale, in quanto per il legislatore italiano l’adozione di un minore da parte di una coppia omessale non è prevista.
Le due donne si sono dunque rivolete al Tribunale di Venezia al fine ottenere il riconoscimento, anche per la madre intenzionale.
Con ordinanza del 3 aprile 2019 , il Tribunale di Venezia quindi solleva la legittimità Costituzionale della legge sulle unioni civile nella parte in cui avrebbe limitato la tutela delle coppie di donne omosessuali unite civilmente ai soli diritti doveri nascenti dall’Unione civile ,escludendo il riconoscimento della filiazione e dell’art dell’art. 29, comma 2, del D.P.R. 3 novembre 2000, n. 396 (Regolamento per la revisione e la semplificazione dell’ordinamento dello stato civile, a norma dell’articolo 2, comma 12, della legge 15 maggio 1997, n. 127), nella parte in cui avrebbe limitato la possibilità di indicare nei registri degli atti di nascita il solo genitore legittimo, nonché di quelli che rendono o hanno dato il consenso ad essere nominati, e non anche alle donne tra loro unite civilmente e che abbiano fatto ricorso all’estero a procreazione medicalmente assistita.
In sostanza il Giudice del Tribunale di Venezia riteneva che , anche grazie a un costante orientamento della Cassazione, in seguito alla riforma della filiazione e alla Convenzioni internazionali che hanno ispirato tale riforma, in tutti i procedimento giurisdizionale in cui sono coinvolti i minori il principio ispiratori di tali provvedimenti debba essere , l’interesse del minore stesso.
In sostanza quindi se il minore vive all’interno di un progetto familiare in un contesto in cui non è pregiudicata in alcun modo la sua crescita Pisco fisica , non vi è alcun motivo di negare l’iscrizione all?Ufficio civile, anche e soprattutto in relazione alla società in cui viviamo , il cui concetto di ordine pubblica debba essere adeguato al tempo attuale. Tenendo conto del fatto che il diritto alla bigenitorialità del minore è un diritto pretensivo che, ove il progresso scientifico la consenta, non avrebbe potuto essere escluso o limitato, se non in funzione di interessi considerati dal legislatore pari-ordinati e non basati esclusivamente sul sesso dei genitori.
La decisione delle Corte
La Corte Costituzionale ha dichiarato l’inammissibilà del ricorso ,ritenendo che la disciplina è materia di esclusiva competenza del legislatore
Con la segnalata sentenza la Consulta ha dichiarato l’inammissibilità della questione di legittimità costituzionale sollevata, rientrando la disciplina del rivendicato riconoscimento della filiazione delle due madri in un ambito riservato alla discrezionalità del legislatore.
In via preliminare, la Corte ha osservato che, pur essendo innegabile che la genitorialità del nato a seguito del ricorso a tecniche di procreazione medicalmente assistita è legata anche al consenso prestato, e alla responsabilità conseguentemente assunta, da entrambi i soggetti che hanno deciso di accedere ad una tale tecnica procreativa, nondimeno, occorre pur sempre che quelle coinvolte nel progetto di genitorialità così condiviso siano coppie di sesso diverso, atteso che le coppie dello stesso sesso non possono accedere, in Italia, alle tecniche di procreazione medicalmente assistita. E in questa prospettiva, ha aggiunto il Giudice delle leggi, l’esclusione dalla fecondazione assistita delle coppie formate da due donne non è fonte di alcuna distonia e neppure di una discriminazione basata sull’orientamento sessuale. Infatti, una legge nazionale che riservi il ricorso all’inseminazione artificiale a coppie eterosessuali sterili, attribuendole una finalità terapeutica, non può essere considerata fonte di una ingiustificata disparità di trattamento nei confronti delle coppie omosessuali, proprio perché la situazione delle seconde non è paragonabile a quella delle prime.
In sostanza secondo il Giudice delle leggi non vi è alcuna discriminazione nella decisione di non non voler iscrivere all Registro Civile la madre intenzionale, semplicemente perché la legge italiano non prevede il ricorso anche per la coppia eterosessuale alla procreazione assistita .
Sul punto, la Consulta ha altresì evidenziato che, in ordine all’auspicato riconoscimento delle donne omosessuali civilmente unite quali genitori del nato da fecondazione eterologa praticata dall’una con il consenso dell’altra, la scelta, operata dopo un ampio dibattito, dal legislatore del 2016 – quella, cioè, di non riferire le norme relative al rapporto di filiazione alle coppie dello stesso sesso, cui è pur riconosciuta la piena dignità di una vita familiare – sottende l’idea, non arbitraria o irrazionale, che una famiglia composta da due genitori, di sesso diverso, entrambi viventi e in età potenzialmente fertile, rappresenti, in linea di principio, il luogo più idoneo per accogliere e crescere il nuovo nato.
Pertanto non può che essere rimandata al legislatore la questione .
E quanto al connesso e parallelo profilo, relativo al vulnus che si assume arrecato all’interesse del minore, la Corte ha richiamato la posizione della giurisprudenza, che ha già preso in considerazione l’interesse in questione, ammettendo l’adozione cosiddetta non legittimante in favore del partner dello stesso sesso del genitore biologico del minore, ai sensi dell’art. 44, comma 1, lett. d), della legge 4 maggio 1983, n. 184. In questa chiave, si esclude che una valutazione negativa circa la sussistenza del requisito dell’interesse del minore possa fondarsi esclusivamente sull’orientamento sessuale del richiedente l’adozione e del suo partner, non incidendo l’orientamento sessuale della coppia sull’idoneità dell’individuo all’assunzione della responsabilità genitoriale (Cass. civ., sez. I, 22 giugno 2016, n. 12962). Sicché una diversa tutela del miglior interesse del minore, in direzione di più penetranti ed estesi contenuti giuridici del suo rapporto con la madre intenzionale, che ne attenui il divario tra realtà fattuale e realtà legale, è ben possibile, ma le forme per attuarla attengono, ancora una volta, al piano delle opzioni rimesse alla discrezionalità del legislatore.